Titoli
  • La "Losa delle coppelle" di Avigliana - Roberto D'Amico
  • "Sul frammento di colonna ritrovato nel pozzo di Piazza Conte Rosso di Avigliana" - Roberto D'Amico
  • "Non chiamatela Cazzuola"
  • dal libro "Trana, fondamenti di storia e di vita" di Stefano Barone e Ezio Capello

La "Losa delle coppelle" di Avigliana - Roberto D'Amico

Lo scorso 17 ottobre 2021, durante la visita organizzata da A3 alla Chiesa di Santa Maria Maggiore, abbiamo potuto osservare da vicino la bellissima pietra coppellata, nota come "Losa delle coppelle". Si tratta del reperto più antico di tutta l'area aviglianese. Agli inizi degli anni '80, dopo essere stato segnalato dal dr. Luigi Fozzati, venne posto qui in custodia su iniziativa dell'Ente Parco Naturale dei Laghi di Avigliana.

Questa spessa lastra di pietra, del peso di circa 400 chilogrammi, venne casualmente scoperta più di 100 anni fa, poiché, rovesciata, fungeva da ponticello a ridosso di un fossato presso la località Casaccia, al confine fra Trana e Avigliana. Seguendo un trattamento analogo a quello subito da molte altre pietre "pagane", si presume che, in un passato più o meno lontano, essa sia stata espiantata dal terreno dove si trovava sul Monte Cuneo per poi essere gettata o trascinata lungo il pendio. Ormai dimenticata da secoli, è stata poi utilizzata come una pietra qualunque e posta sopra quel fossato.

Non è forse casuale che la zona del suo ritrovamento sia proprio accanto alla torbiera di Trana, dove è nota la presenza di un insediamento palafitticolo del Neolitico, i cui abitanti potrebbero esserne stati gli artefici. Così com'è altresì possibile che ad inciderla siano state, invece, le popolazioni celtiche che qui giunsero in seguito e che secondo la leggenda fondarono Avigliana.

Rocce coppellate sono, per altro, assai frequenti in tutte le Alpi. In Val di Susa, solo per citare alcuni esempi, sono note la "Pera d'le masche", la Pietra delle Streghe, di Vaie, la "Pera Crevolà", laroccia bucherellata, di Menolzio e quella situata proprio ai piedi dell'Arco di Augusto a Susa. La bellissima pietra di Vaie è anche conosciuta come "Pera dle Faje", la Pietra delle Fate, ma non si pensi ad esseri benefici... sono figure sempre legate a reminiscenze di riti pagani e quindi si parla di donne furiose capaci di far ballare un malcapitato viandante fino a lasciarlo tramortito e ammutolito, e le coppelle sarebbero i segni lasciati dai tacchi delle loro scarpe o i loro bicchieri.

Lo stesso sperone roccioso su cui è costruito il castello di Avigliana presenta diversi affioramenti rocciosi, levigati e striati dall'azione dell'antico ghiacciaio, che si presentano in superficie come piccoli rilievi a forma di gobba. Anche su alcuni di loro sono stati trovati incavi circolari interpretati come incisioni rupestri, apparentemente rovinate da incisioni molto più recenti (d'altro canto il luogo ha subito molte trasformazioni nel corso dei secoli e molte azioni militari).

Già da questi pochi esempi possiamo notare come, nell'opera di dissacrazione delle antiche pietre pagane, sia ricorrente il tema delle streghe. I luoghi sacri primitivi, dove i nostri avi si riunivano per compiere le loro cerimonie, vennero trasformati agli occhi del popolo in aree infestate dal demonio e dai suoi seguaci. Non ci stupiremo, quindi, di scoprire che sul Monte Cuneo, non molto lontano e più o meno in corrispondenza lineare col luogo del ritrovamento della "Losa delle coppelle", esiste un pianoro denominato il "Bal d'le masche"...

La forma piatta del lastrone, caratteristica questa di molte altre rocce coppellate che solitamente stavano in radure o su piccole vette, permetteva presumibilmente di poterlo utilizzare come altare e forse anche di usarne le cavità scavate come piccole coppe.

Non sarà mai possibile risalire al reale motivo per cui i nostri antenati con un notevole dispendio di tempo ed energia decisero di eseguire queste incisioni. La mancanza di fonti scritte o anche solo di tradizioni tramandate oralmente non consente che di avanzare delle ipotesi. C'è chi ritiene che le coppelle fossero mappe topografiche, con l'indicazione di sorgenti, passi montani, luoghi di raduno stagionali, ecc...; altri riconoscono in loro rappresentazioni di costellazioni (per inciso, riportiamo a titolo di cronaca che qualcuno ha creduto di riconoscere sulla nostra "losa" quelle dell'Orsa Minore e dell'Orsa Maggiore). Un'altra interpretazione le vedrebbe come una sorta di ex-voto, un modo per testimoniare il pellegrinaggio al luogo sacro.

La maggior parte degli studiosi concordano, però, sul fatto che molto più probabilmente le coppelle fossero un'espressione sacro-rituale e che venissero usate durante riti magico-religiosi o cerimonie propiziatorie collegati ai culti della fecondità. Si pensa che duranti tali riti le coppelle potessero servire da piccoli contenitori ed essere riempite con il sangue delle eventuali vittime sacrificali o con offerte di acqua, latte, fuoco e persino di lacrime o sperma.

Tutte queste interpretazioni hanno la stessa validità e non è neppure da escludere che quelle enigmatiche cavità potessero avere un utilizzo e un significato diversi da luogo a luogo o racchiuderne più d'uno.

La "Losa delle coppelle" di Avigliana contiene venticinque incisioni non molto profonde a sezione emisferica, eseguite quindi con uno strumento in pietra; gli archeologi ritengono che possa risalire alla tarda Età del Bronzo, dunque ad almeno 3000 anni fa, ma potrebbe essere ancora più antica. Infatti, le coppelle sono molto più consunte rispetto a quelle di altre pietre rimaste nel loro posto originale. Ciò potrebbe essere dovuto tanto ad una maggiore usura, anche a causa del trattamento subito, quanto ad un'età più lontana nel tempo. Osservandola con attenzione, ci si accorge che potrebbe addirittura essere solo una parte di un lastrone di roccia più grande, presentando su uno dei suoi lati evidenti segni di rottura, non certamente naturali.

Nell'interessantissimo saggio "La losa delle coppelle conservata nella Chiesa di Santa Maria Maggiore in Borgo Vecchio di Avigliana" pubblicato a cura del Centro Culturale Vita e Pace e della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Torino, Eleonora Piccinini scrive:

"I culti delle pietre col passare del tempo vennero vietati e talvolta, siccome erano profondamente radicati nelle menti degli uomini, venivano reinterpretati attraverso nuove leggende. Le popolazioni rurali consideravano i menhir e i dolmen "pietre del fulmine" cadute dal cielo durante le tempeste oppure vestigia di giganti, fate o eroi". "In virtù del fatto che i sassi furono adorati in quanto manifestazione di presenze divine, - continua la ricercatrice - la lotta fra l'idolatria e la fede non è che il risultato della confusione fra segno della presenza divina e incorporazione della divinità in un qualsiasi ricettacolo, un contrasto indi fra due teofanie. Fu allora che le antiche forme e gli oggetti sacri, una volta modificato il loro significato e il loro valore, furono adottati dalla nuova riforma religiosa. Ma la confusione fra segno e divinità si era aggravata negli ambienti popolari, e per eliminarne il pericolo, visto come una minaccia al nuovo assetto ideologico-politico, si distruggevano i segni o si trasformava radicalmente il loro significato. In conclusione, sia che proteggano i morti, sia che ricevano un carattere sacro dalla loro forma o dalla loro origine, sia che rappresentino teofanie o punti di intersezione delle zone cosmiche, le pietre traggono sempre il loro valore cultuale dalla presenza divina che le ha trasfigurate, dagli spiriti che vi si sono incarnati, o dal simbolismo che le inquadra. Le pietre sono quindi segni ed esprimono sempre una realtà trascendente".

Parole bellissime che condividiamo in toto.

Non possiamo che invitare il lettore ad andare a visitare la storica chiesa di Santa Maria Maggiore di Avigliana per poter ammirare da vicino questo messaggio scolpito nella pietra giunto da quel lontano passato che ci trasmette ancora tutta la forza spirituale degli uomini che lo realizzarono, pur non riuscendo più a tradurlo.

Ringraziamo, infine, Manuela Turino Matlì, Presidentessa del "Centro Culturale Vita e Pace" che ha in carico la cura, la manutenzione e il restauro della chiesa, che ci ha guidato con estrema cortesia e grande competenza in una visita piena di contenuti. Ci permettiamo di suggerirle di trovare il modo di dare uno spazio e una visibilità maggiore a questo prezioso reperto preistorico, cui sappiamo essere molto legata, ora sistemato in un angolo di una stanza laterale. Magari, come abbiamo visto durante le gite organizzate dalla "Sezione Celtica" di A3, spostandola all'esterno, sul sagrato o nel cimitero, protetta da una teca in vetro o plexiglas.

Nota: Ci sia consentita una breve digressione non archeologica utile, secondo noi, per cercare di riportare la nostra mente a quelle genti lontane, di cui si conosce poco. Per questo motivo vengono spesso ignorate del tutto o, estremo contrario, mitizzate. In realtà, si trattava di persone come noi che avevano un'unica continua preoccupazione: ingraziarsi gli spiriti che animavano ogni cosa per evitare incidenti, ferite, malattie e morti, per scongiurare tempeste o inverni troppo freddi, per propiziare la pioggia, una buona caccia, un buon raccolto o la nascita di figli forti necessari alla sopravvivenza del villaggio... Nella loro società, che oggi definiamo "animista", il tempo era quindi scandito da riti e cerimonie che avevano il compito di mettere in contatto tra di loro la comunità e gli spiriti che popolavano il mondo intorno a loro al fine di rendere la natura più benevola. Nel nostro libro "L'anima segreta della Val Varaita" (Priuli&Verlucca Editori, 2000), con un gioco di fantasia, abbiamo cercato di ricreare una di queste cerimonie. L'avevamo fatto in riferimento ad un bellissimo grande masso inciso che avevamo trovato in Alta Val Varaita, ma la ricostruzione vale ugualmente per la nostra pietra di Avigliana e per tutte le altre pietre sacre di quei tempi. Lo riproduciamo come curiosità per chi avesse voglia di leggerlo.

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"Sul frammento di colonna ritrovato nel pozzo di Piazza Conte Rosso di Avigliana" -  Roberto D'Amico

Il 18 settembre 2021, durante la XII Giornata dell'Archeologia della Valle di Susa, ha creato moltissimo interesse la discesa degli speleologi/archeologi all'interno del pozzo medievale di piazza Conte Rosso di Avigliana. Durante questa discesa non era consentito il recupero di alcunché dal fondo.

L'unica volta di cui si ha notizia di un recupero di oggetti da quel pozzo è del 1861, quando, a causa di una grave siccità, essendo eccezionalmente venuta a mancare l'acqua nel pozzo, che era rinomato per l'abbondanza e la stabilità della sua falda acquifera, venne deciso di pulirne il fondo. Furono asportati circa quattro metri di fango insieme ai resti di molte armi ed armature, "elmi, manette, spade e scimitarre", come riporta il pannello turistico.  Secondo una tradizione popolare, queste armi sarebbero appartenute agli ultimi eroici difensori del castello gettati lì dentro dalle truppe francesi che nel 1536, al comando del maresciallo di Montmorency, distrussero l'intera guarnigione composta da 500 armati. Tale tragico evento, in realtà, pare ben poco probabile, visto che per poter continuare ad usare l'acqua i cadaveri avrebbero dovuto essere rimossi rapidamente e, inoltre, nel fondo melmoso non furono rinvenuti scheletri. Per cui è assai più probabile che, come riportato nel pannello turistico, fu qualcuno della stessa guarnigione subalpina, certamente per cercare di salvarsi la vita, che si spogliò delle sue armi gettandole nell'unico posto in cui difficilmente avrebbero potuto essere scoperte.

Oggetto di questa breve nota, però è un altro. Insieme a quelle armi fu, infatti, anche rinvenuto un concio di una colonnina marmorea alto una cinquantina centimetri, oggi conservato nel Museo Civico di Susa.

Il reperto è finemente istoriato con ghiande e foglie di quercia e ha come elemento principale una strana figura di frate con testa di animale (alcuni pensano di asino, altri di volpe), dalla cui bocca esce un cartiglio contenente un testo di difficile decifrazione, intento a predicare a fedeli rappresentati da galline, oche e anatre. Queste strane raffigurazioni hanno attirato la nostra attenzione spingendoci a fare una piccola ricerca.

Cesare Ponti, nel suo libro "Vecchia Avigliana" (Edizioni Susalibri, 2011), da cui abbiamo tratto la fotografia, scrive: "Secondo padre Bacco, questa scultura rappresenta un francescano che sta predicando e, in sostanza, si tratterebbe di una parodia caricaturale dei Frati minori di San Francesco ad opera dei Valdesi, che a quel tempo erano appunto in accesa polemica con i Francescani. Esistono però anche altre interpretazioni, tra cui quella di G. Gasca Queirazzo, secondo il quale potrebbe trattarsi di uno dei racconti del "Roman de Renart", un'opera letteraria in voga in Francia nel Medioevo, che aveva per tema le imprese furfantesche di una volpe."

Riteniamo poco attendibile questa seconda interpretazione, in quanto il "Roman de Renart", fu sì una raccolta di racconti medievali francese del XII e XIII secolo nei quali vediamo agire animali al posto degli esseri umani, ma poco ha a che vedere con ambiti religiosi. È, invece, assai probabile, invece, che queste figure si collochino proprio nel periodo a cavallo del XIV-XV secolo funestato dalle lotte tra Cattolici e Protestanti.

Da questo punto di vista, si tratta indubbiamente di un reperto dal valore simbolico e storico assai importante, perché dalle pur poche figure rimaste possiamo ricavare molte informazioni che ci permettono di formulare delle congetture.

Partiamo, ad esempio, dalla testa di animale, volpe o asino, del monaco predicatore. È vero che nel cristianesimo la volpe venne associata all'eresia e quindi quel monaco-volpe potrebbe essere la rappresentazione di un eretico che predica la dottrina eretica della Riforma. Tuttavia, è altrettanto vero che la testa d'asino venne usata come blasfema derisione dei cristiani da parte dei pagani sin dall'inizio del diffondersi del Cristianesimo a Roma.

Basti ricordare la lastra di pietra del I-III secolo (i pareri sono controversi), conservata dell'Antiquarium del Palatino, sulla quale un graffito raffigura un uomo dinnanzi ad un crocifisso con testa d'asino accompagnato dalla scritta "Alessameno venera (il suo) Dio". Sempre nel II secolo, Tertulliano raccontava che a Cartagine un apostata aveva raffigurato su una tavoletta il "Dio dei cristiani", definendolo "figlio di un asino", come un essere con orecchie e zoccoli asinini. Tuttavia, se ancora nel IV secolo San Giovanni Grisostomo raccomandava ai cristiani di non portare addosso talismani che associassero l'immagine dell'asino a Gesù, è evidente che il simbolismo dell'asino dovette avere una certa ambivalenza di difficile interpretazione, non rifacendosi solo ai pagani, ma anche e più probabilmente alle differenti correnti cristiane in lotta tra loro in quel periodo.

Il Medioevo ereditò molte di quelle prime storie e leggende cristiane che vennero utilizzate per satire allegoriche morali e religiose, talvolta anche figurate, nei confronti del clero, anche in tempi antecedenti la Riforma. Così, ad esempio, uno dei capitelli del Duomo di Parma, scolpito da un certo Nicolò nel XII secolo, raffigura tre monaci, uno con testa d'asino, che sembra fare da precettore, e altri due monaci con testa di cane/lupo come suoi inquietanti allievi ascoltatori.

La corrente satirica più prolifica e ricca si sviluppò, però, nel XV secolo in Germania, con la Riforma Luterana, e il ruolo dell'immagine religiosa in relazione alle critiche dei riformatori coinvolse profondamente gli artisti, dalla carta alla pietra, nel prendere di mira la Chiesa di Roma e i chierici. La lotta tra le fazioni cristiane risorse a nuovo vigore riproponendo ancora una volta immagini che riportano alla memoria quanto scriveva Tertulliano dodici secoli prima!

Di quella arguta e prepotente satira di carattere puramente religioso "L'Asino Papa", pubblicato a Wittenberg nel 1523 da Martin Lutero e da Filippo Melantone, è l'antesignano. Di tale libello è celebre l'incisione del "Papa asino", opera di Lucas Cranach il Vecchio. Feroce satira antipontificia, quest'opera identificava nelle caratteristiche dell'animale i mali e le degenerazioni della Chiesa. Tra l'altro, è un esempio di come, grazie al nuovo e potentissimo mezzo della stampa, la controversia religiosa scatenata da Lutero non abbia risparmiato nulla di ciò che poteva colpire l'immaginazione popolare.

Anche in ambito francese la satira contro gli ecclesiastici e i frati si diffuse e fu copiosa e invasiva, a differenza di Italia e Spagna, dove la Chiesa riuscì a contenere l'ondata di protesta. È assai probabile, dicevamo, che il nostro reperto sia una testimonianza di quel periodo di scontri religiosi, anche violenti e portati avanti senza esclusione di colpi e senza pietà, tra Ugonotti, Calvinisti, Valdesi da una parte e Cattolici dall'altra, che ebbe come teatro le terre di frontiera delle Alpi Occidentali piemontesi in un continuo alternarsi di scorribande, vittorie e sconfitte delle due fasi in lotta. Per la sua posizione geografica ed i forti rapporti con la Francia, anche la Valle di Susa vide il transitare di moltissimi Valdesi, perché in fuga dalle persecuzioni o per diffondere la loro dottrina. Anche ad Avigliana è nota la presenza di numerosi Valdesi in città a partire dalla metà del XIV secolo.

Come ben scrisse Carlo Davite parlando della nostra valle nel suo libro "I Valdesi nella Valle di Susa", pubblicato dalle Società di Studi Valdesi il 17 febbraio 1955: "Le vicende dei Riformati sono strettamente unite a questa storia, e non vi è una gola, un colle, un altipiano che non sia stato teatro di una lotta tenace per la difesa della fede religiosa."

Uno degli elementi di quelle scorribande fu la furia iconoclasta dei Protestanti che colpì centinaia di luoghi di culto cattolici. È curioso notare come la testa del frate della nostra colonnina, che a questo punto possiamo dire potrebbe essere stata quella di un asino, mostri i chiari segni di uno sfregio fatto per non renderla più riconoscibile. Si potrebbe azzardare l'ipotesi che originariamente l'opera, come dicono del XIV secolo, ma forse anche di un periodo precedente, facesse parte di un'edicola privata o di una piccola cappella cattolica e che rappresentasse, secondo un modello abbastanza diffuso nel Medioevo, un monito rivolto a clero e fedeli di rimanere osservanti della vera fede.

Le domande di fondo rimangono le stesse: chi buttò nel pozzo questa colonnina e perché? Venne gettata nel pozzo dai Protestanti che la interpretarono come un attacco all'insegnamento della religione ritenuta eretica? O, magari, furono invece dei cattolici a disfarsene per cercare di ridurre gli attriti o per sottrarsi allo scontro? Ovviamente non lo potremo mai sapere, ma, anche in questo caso, così come per le armi, il fatto che sia stata gettata nel pozzo sembra essere una chiara indicazione dell'urgenza del gesto e, forse anche, della probabile vicinanza della sua provenienza.

Sulla nostra colonnina vi è un altro dettaglio dalla simbologia estremamente interessante... Infatti, nella sua parte superiore troviamo la testa del cosiddetto Uomo Verde (la terminologia usata comunemente per queste figure è quella inglese di "Green Man"), un volto di un uomo con barba, baffi e capelli che si confonde, in modo per nulla casuale, tra foglie di quercia e ghiande. l'Uomo Verde, spesso confuso con l'Uomo Selvaggio, viene giustamente interpretato come la raffigurazione di uno spirito della natura, di una figura legata ai riti di fertilità pagani. Anche se potrebbe essere fatto risalire persino a taluni riti misterici romani, è indubbio che esso derivò dalle antiche credenze delle popolazioni celtiche, racchiudendo due simboli per loro molto importanti: la testa, rappresentante forza e vigore, e la quercia, dalla quale i Druidi con i loro falcetti d'oro raccoglievano il vischio, simbolo di forza vitale. Nel corso dei secoli, a seguito di lente convergenze di elementi ideologici e fusione o mutuazione di elementi di religioni diverse tra loro inizialmente inconciliabili, l'Uomo Verde entrò a far parte anche del mondo cristiano. Lo vediamo così frequentemente scolpito nel legno o nella pietra in chiese, cappelle, abbazie e cattedrali in tutta Europa, dove se ne possono trovare esempi a partire dal 400 d.C.

Quante cose, dunque, in un piccolo oggetto come questo pezzo di colonnina!

Non possiamo trarre conclusioni, ma speriamo di essere almeno riusciti, analizzando gli elementi rappresentati su questo prezioso frammento di storia della nostra cittadina, ad incuriosirvi e magari a spingervi a continuare con vostre ricerche personali... Sarebbe comunque quanto mai auspicabile che, dopo 120 anni, venisse effettuata una nuova pulizia del fondo di questo pozzo che, grazie alle più accurate tecniche moderne, permetterebbe sicuramente di recuperare altri reperti utili per ampliare la nostra conoscenza della storia di Avigliana.

Prima di concludere, notiamo ancora un altro piccolo enigma del nostro pozzo... Verso la fine del XVIII secolo, il sindaco Michele Alotto fece fare dei lavori di manutenzione e restauro. A ricordo di quella meritevole opera resta un'incisione, MA1787, oggi assai difficile da individuare e leggere, all'interno di una delle pietre di coronamento del pozzo.

Resta da capire, però, come mai la scritta venne curiosamente scolpita al contrario! Forse per poterla leggere dall'alto quando ci si affacciava al pozzo? 

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NON CHIAMATELA CAZZUOLA

La lista degli strumenti utilizzati dagli archeologi quando effettuano uno scavo è estremamente lunga. Alcuni sono entrati recentemente nell'elenco e sono senza dubbio tecnologicamente sofisticati, altri fanno parte del corredo praticamente da sempre e sono stati mutuati da altre professioni e arti.
Tra questi il "trowel", che inglese significa... cazzuola! Però, per convenzione, gli archeologi, anche quelli italiani, lo chiamano così: trowel.
In effetti, ha qualche particolarità: il trowel è più piccolo della cazzuola normalmente usata dai muratori, è appuntito ed è sempre privo di saldature, cioè la parte metallica è costituita da un unico pezzo.
Con questo strumento l'archeologo rimuove con delicatezza la terra dello scavo, alla ricerca dei reperti. Piano, piano, con pazienza, alla ricerca di un coccio, di un frammento... l'emozione fa dimenticare il male di schiena

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premi X per chiudere

Testo tratto dal libro "Trana, fondamenti di storia e di vita" di Stefano Barone e Ezio Capello

C'è stato un tempo, alcune migliala di anni fa, in cui la Valle di Susa e la Val Sangone, che non si chiamavano certo così, anzi, non avevano neppure un nome, erano interamente ricoperte da una spessa coltre di ghiaccio. Stiamo parlando dell'ultima delle tre glaciazioni, un fenomeno naturale che si è manifestato in modo piuttosto discontinuo nelle diverse ere geologiche e con lunghissimi intervalli nel corso dei quali il ghiaccio scompariva lasciando solo le morene a testimoniarne il passaggio. Sulle origini delle glaciazioni si è discusso molto, e si continua a farlo, giacché non è affatto detto che non debbano ripetersi ancora. Sicuramente si sono manifestate in conseguenza di una sensibile variazione del clima, la quale, a sua volta, ha causato un lento ma progressivo abbassarsi della temperatura. L'ultima di queste glaciazioni è stata di tali e così vaste proporzioni da sconvolgere la vita sull'intero pianeta, dal momento che ha riguardato il trenta per cento delle terre emerse. Nella Valle di Susa e nella Val Sangone, che ne sono state direttamente interessate, i segni lasciati dallo scorrere dell'immenso ghiacciaio che si era formato nel fondo di entrambe sono ben visibili ancora oggi.

A vederlo dall'alto, dalla cima del Rocciamelone o da quella del Musine, il paesaggio sottostante doveva essere uno spettacolo da mozzafiato, qualcosa di assai simile a ciò che ci mostrano le foto dei ghiacciai himalayani che scorrono ai piedi dei famosi "ottomila". Enormi fiumane scintillanti di luce, lunghe decine di chilometri, solcate in senso longitudinale dalle linee scure delle morene, fiumane dal letto tortuoso come quello dei veri fiumi, silenziose e apparentemente immobili. In realtà queste fiumane sono in continuo movimento, spinte dai ghiacci delle alte montagne che le circondano, i quali tendono, per effetto della forza di gravità, a scivolare verso il basso. Si tratta di un movimento impercettibile all'occhio umano e che può essere rilevato solo ricorrendo a lunghe osservazioni ed a meticolose misurazioni. Neanche camminandoci sopra si ha la sensazione di trovarsi su qualcosa che si muove, su qualcosa di "vivo", a meno che non si rimanga fermi, sempre nello stesso punto, per lunghissimo tempo. Ma torniamo alle morene della Val Sangone. Quando i ghiacci avevano cominciato a ritirarsi ed il clima era tornato a farsi più mite, a ricordare il lungo periodo di glaciazione erano rimaste solo più le morene. La Val Susa e la Val Sangone, ridotte ad un'unica immensa pietraia, dovevano offrire una visione pressoché identica a quella che siamo abituati a vedere dopo una disastrosa alluvione. Solo terra e sassi, a montagne, senza nemmeno la parvenza di un filo d'erba. Davvero deprimente come scenario, non c'è che dire, ammesso che ci fosse stato qualcuno in grado di poterlo osservare.

E l'Uomo? L'Uomo c'era, ma era assai più lontano. Aveva abbandonato da tempo quei luoghi, ormai inospitali, ed era andato a vivere nella grande pianura, oltre il limite massimo raggiunto dal ghiaccio, dove il clima, benché molto freddo, gli aveva consentito di sopravvivere. Siamo nell'ultima fase della cosidetta "Età della pietra" e l'essere umano in questione è l'Homo Sapiens, specie già piuttosto evoluta rispetto alle precedenti, quella dell'Homo Habilis, dell'Homo Erectus e dell'"Uomo di Neandertal". L'Uomo cosiddetto Sapiens ha lasciato quasi definitivamente la grotta e vive ormai nelle più confortevoli capanne, si è messo ad allevare, ad uso alimentare, il bestiame ovino ed equino, nonché il cane, ma questo solo per compagnia. Non si copre più soltanto di pelli di animali, ma ha cominciato a fabbricarsi i primi indumenti, tagliando e cucendo fra loro le pelli, e tessendo la lana. Ha inoltre imparato a coltivare la terra ed a sviluppare il culto dei morti. La caccia resta pur sempre la sua attività principale, non già come passatempo, ma per necessità, una necessità che lo porta a spostarsi di continuo e ad allargare sempre di più il proprio raggio di azione alla ricerca di nuovi territori di caccia, il che lo costringe ad allontanarsi notevolmente dalla propria capanna e dal clan al quale appartiene. Ed è così che un bel giorno, durante una di queste "battute a largo raggio", arriva ad affacciarsi a quella che oggi è la Val Sangone. Di tempo ne è passato parecchio dall'ultima glaciazione. I ghiacci non ci sono più, sono scomparsi, e il profilo delle morene si nota appena. Il ritorno del clima a livelli normali e l'alternarsi delle stagioni hanno fatto sì che la zona, un tempo ridotta ad un'immensa distesa di pietre e terra arida, sia nuovamente vivibile, ricca di vegetazione, di acqua e di animali selvatici. Raggiunto un punto dominante, il cacciatore può così spaziare con lo sguardo l'intera valle. Nota la presenza di alcuni laghi, e non può che compiacersi della sua straordinaria scoperta. « Hù! » esclama mentre continua ad ammirare la bellezza del paesaggio che lo circonda. Poi, con andatura veloce, si rimette in cammino e ritorna sui suoi passi, ansioso di raggiungere la sua capanna e di raccontare ai componenti del proprio clan ciò che ha appena visto.

Trascorre qualche altro millennio. Dall'"Età del Rame" siamo passati a quella "del Bronzo". La Val Sangone non è più soltanto un territorio di caccia per gli abitanti della pianura. L'Uomo si è insediato in modo stabile nelle immediate vicinanze dei quattro laghi. Attorno al più piccolo, quello che in seguito diventerà la "torbiera" di Trana, sono sorte numerose palafitte, un tipo di struttura abitativa assai diffusa a quel tempo. Le capanne, essendo sostenute da alti pali infissi nel terreno, permettono di stare all'asciutto, non più a contatto con l'umidità della nuda terra, ed offrono inoltre una maggiore sicurezza contro gli attacchi degli animali feroci e da quelli delle tribù che dimorano nei paraggi. 

A proposito della formazione dei laghi sopracitati, sorti per effetto della disposizione delle diverse morene glaciali esistenti nella zona, preferisco riportare un brano tratto dalla relazione del dott. Alessandro Portis, membro dell'Accademia delle Scienze di Torino, stesa in occasione del ritrovamento nella torbiera di Trana di una mandibola di "cervo gigante" appartenente alla specie Cervus elaphus, i cui esemplari pare fossero grandi quanto un cavallo. La relazione porta la data del 5 febbraio 1883.

« È noto come il ghiacciaio della Dora Riparia si sia una volta spinto fino alla Pianura Padana e che, giunto contro al masso serpentinoso di Avigliana, si sia diviso in due rami, l'uno più grande proseguente la valle sino oltrepassato il Musine, l'altro destro, più piccolo, che superata la stretta Avigliana - Sant'Ambrogio si allargò nel bacino Avigliana - Trana portando la sua morena terminale fino oltre il Santuario di Santa Maria di Trana a sbarrare in parte la estremità della valle del Sangone, costringendo il Sangone stesso a cambiare di direzione e poi ad erodere profondamente la morena stessa. È noto pure come, dopo aver formata questa estrema morena, e dopo aver goduto per un certo periodo di tempo di una estensione considerevole, il ghiacciaio cominciò lentamente a ritirarsi facendo però nel suo periodo di regresso varii tempi di sosta, durante i quali nuove morene concentriche alla estrema formavansi attraverso al bacino stesso. Una prima, corrispondente ad un primo tempo di sosta, è quella che separa la torbiera di Trana dal lago dello stesso nome, una seconda separa il lago di Trana da quello di Avigliana, una terza questo dalla torbiera di Avigliana ed una quarta il bacino di Avigliana dalla valle della Dora. Il bacino veniva così suddiviso in altrettanti bacini minori in ognuno dei quali dovevansi raccoglier le acque non aventi uscita fino al punto in cui od a monte od a valle queste trovavano a riversarsi fuori della propria conca ed a trovar così uno sfogo alla pianura. Tale sfogo fu, dopo lo sgombro del bacino da parte del ghiaccio, trovato a monte per essere le morene più recenti sempre una più bassa dell'altra. Mentre però il ghiaccio occupava ancora la estremità settentrionale del bacino di Avigliana le acque dovevano esservi molto più alte e cercare uno sfogo a valle, superando ed erodendo in parte la morena estrema gettandosi così nella valle del Sangone. »

« Il primo laghetto formossi adunque topograficamente in coincidenza della torbiera di Trana, ebbe però molto maggiore estensione di quella ed andò man mano allargandosi verso Avigliana a misura che il ghiacciaio ne abbandonava il bacino. Allorché però il ghiacciaio nel suo regresso ebbe reso libero il varco tra il bacino di Avigliana e lo sbocco della valle della Dora, il lago, non più sostenuto dal ghiaccio, si svuotò nella Dora e solo ne rimasero, sostenuti da altrettante morene, quattro laghetti residui occupanti rispettivamente: la moderna torbiera di Trana, il lago di Trana, il lago di Avigliana e la moderna torbiera di Avigliana. Mentre il gran lago primitivo si versava a valle, i laghetti residui, per le nuove condizioni di pendenza, ebbero loro sfogo a monte e cominciò lo scaricatore di ciascuno ad erodere la morena che gli serviva di barra. »

« Il bacino della odierna torbiera di Trana, che aveva già, all'epoca della propria individualizzazione, una esigua profondità non tardò ad aver ancora scemata quest'ultima per l'erosione operata dal suo scaricatore e per l'accumularsi di detriti caduti dal circostante pendio, cosicché in breve, per lo svolgersi e rapido estendersi di vegetazione selvosa e palustre favorita dal raddolcimento della temperatura, passò rapidamente dalla fase di Lago a quella di Torbiera. Gli stessi motivi portarono la intorbazione del laghetto occupato dalla odierna torbiera di Avigliana, mentre più a lungo resistettero, per la maggior profondità e per essere forse in essi scemata la vegetazione palustre, i moderni due laghi. »

« Ad ogni modo è certo che, quando la torbiera di Trana poteva ancor chiamarsi Lago, essa fu abitata dall'Uomo, il quale si stabilì sulle sue rive e trovò conveniente stabilire in essa le Palafitte che i suoi coetanei fabbricavano nel laghetto, oggi pur torbiera, di Mercurago e in tanti altri laghi e laghetti del Piemonte e della Lombardia. »

Che la torbiera, sorta sui resti del più piccolo dei due laghetti di Trana, sia stato un antico insediamento umano lo provano gli oggetti ritrovati verso la fine dell'Ottocento, nonostante due secoli di prelevamenti pressoché continui del prezioso sedimento formatesi, nei millenni successivi all'ultima glaciazione, sul fondo del precedente bacino lacustre. Stiamo parlando della torba, una specie di carbone naturale derivato dalla lenta decomposizione di piante, erbacce, alghe, foglie, muschi e legname, insomma di tutto quello che accidentalmente finiva in acqua. Scomparso il lago, al suo posto era rimasto uno strato spesso anche alcuni metri che si presentava sotto forma di una massa spugnosa di colore scuro, quasi nero. La torba è di facile estrazione. È sufficiente raccoglierla e pressarla, facendone delle mattonelle che poi vengono fatte asciugare all'aria e al sole, e il combustibile che si ottiene, oltre ad essere più che valido è molto economico, è decisamente quello a minore contenuto di carbonio. Ma questo materiale è anche un ottimo fertilizzante, motivo per cui è facile capire come, una volta scoperto il giacimento, la torbiera di Trana sia stata presa praticamente d'assalto dalla popolazione locale, al punto che nel 1885 la torba risultava quasi interamente asportata. Sfortunatamente, nel corso di questi massicci prelevamenti, nessuna attenzione veniva prestata al prezioso materiale paleontologico presente nella torba. Di conseguenza, si può dedurre che un buon novanta per cento dei reperti che avrebbero potuto essere oggetto di studio siano venuti a mancare. Scienziati e studiosi come Sacco, Cantamessa, Marro, Calandra, Bogino, Déchelette, Castaidi e Volta, che non potevano certo dedicare tutto il loro tempo a fare la guardia alla torbiera, vedevano con crescente rammarico il progressivo ridursi dello strato di torba, ben sapendo che ogni giorno qualcosa di estremamente importante andava irrimediabilmente perduto. Possiamo quindi facilmente immaginare quale deve essere stata l'espressione di sconforto stampata sul volto del professor Sacco alla notizia che alcuni scavatori avevano rinvenuto uno scheletro umano pressoché intatto, ma che, al momento del suo arrivo sul luogo del ritrovamento, del preziosissimo reperto non era rimasta da esaminare nemmeno una falange di un dito mignolo. Tutto era andato distrutto sotto i colpi del piccone. Le ossa dello scheletro, ridotte in polvere, molto probabilmente erano finite in un vicino campo di patate, a fare da concime. Ciò nonostante, grazie alla collaborazione di alcuni contadini del luogo, consapevoli dell'importanza dei reperti racchiusi nella torba, qualcosa si era potuto salvare, soprattutto ossa fossili di alcune specie di animali selvatici, come cinghiali e cervi, e di animali domestici, come il cavallo, il bue e il cane. Fra i manufatti ricavati con la pietra, era stata ritrovata un'accetta di giadeite, un'altra di pietra grigia, un coltello-sega di selce nera, un altro più piccolo di selce grigia, una punta di freccia di selce grigia e un percussore di eufodite, in altre parole, un rudimentale martello privo di manico. Fra gli oggetti di bronzo figurano un coltello-ascia, una spada di forma allungata riferibile al terzo periodo dell'"Età del Bronzo" e uno spillone che poteva egualmente servire da ornamento per la testa o per appuntare un indumento. Sono state inoltre rinvenute alcune forme di fusione in pietra che dimostrano come a Trana, a quel tempo, l'arte di lavorare il bronzo fosse già notevolmente progredita. I reperti più importanti riguardano forme di fusione per ricavare un rasoio, un'ascia, una punta di lancia nonché una curiosa figura a forma di croce sormontata da un cigno, un oggetto non privo di una certa eleganza, al quale è stato attribuito un significato religioso, forse un amuleto, riferito al culto del Sole, assai diffuso nei tempi preistorici, ed al mito del cigno, al quale era associato. Una figura identica era stata nel frattempo ritrovata a Gréoulx, sul versante francese delle Alpi, negli antichi condotti di una fonte termale, allora sede di un importante culto di Apollo, la divinità solare dei Romani. Ma gli studiosi sono stati concordi nell'attribuire a quella figura un'età molto anteriore alla conquista romana. Tutti questi reperti, assieme ad altri che facevano parte della collezione privata del professor Cantamessa, sono oggi visibili a Torino nel Museo di Antichità e in quello di Antropologia e di Etnografia dell'Università.

L'oggetto che maggiormente mi ha incuriosito è stato tuttavia una bella pagaia ricavata da un tronco di quercia. Da appassionato canoista quale sono, non ho potuto fare a meno di ammirare la particolare fattura di questo antico manufatto, indubbiamente più solido delle moderne pagaie che a volte si spezzano con una facilità incredibile, e perfettamente adattato alla sua funzione, che era quella di spostare l'acqua e di ottenere la maggiore spinta possibile. Questo reperto è importante in quanto dimostra come l'uomo primitivo fosse già in grado di muoversi sull'acqua a bordo di un altrettanto primitivo natante, che poteva essere un singolo tronco d'albero sul quale se ne stava seduto a cavalcioni, ma con le gambe e i piedi a mollo, o meglio ancora una zattera, un insieme di più tronchi legati fra loro con funi rudimentali ricavate dall'intreccio di fibre vegetali.

Reperti interi comprovanti l'esistenza delle palafitte citate nella relazione del dott. Portis sulle rive dell'antico lago non ve ne sono, probabilmente perché erano andati perduti, per noncuranza, al momento della scoperta della torbiera e nel corso dei primi scavi, cioè verso la fine del Settecento. Il professor Barocelli aveva tuttavia rintracciato una serie di frammenti di rovere da lui attribuiti a pali di fondazione, il più interessante dei quali misura poco più di un metro e mezzo di lunghezza e un diametro di dieci centimetri. Questo palo si presenta con un'estremità appuntita e carbonizzata, e ciò fa supporre che il processo di carbonizzazione per conservare il legno destinato ad essere immerso nell'acqua fosse già praticato dai palafitticoli. Anche il prof. Marro era riuscito a recuperare in extremis un frammento di palo di fondazione, che doveva essere di dimensioni notevoli, essendo il suo diametro di ben 35 centimetri. Il resto del palo, purtroppo, era stato usato come legna da ardere dal suo scopritore ( pare che il reperto sia attualmente conservato nel Santuario di Trana ). L'ipotesi sulla presenza delle palafitte nei pressi di questa torbiera è comunque convalidata dall'analogia dei reperti qui rinvenuti con quelli dei luoghi in cui questo tipo di struttura abitativa è stato identificato con assoluta certezza.

« Fantastica è l'impressione che ci lascia la pagina di Preistoria letta sui pochi avanzi raccolti nel fondo di quel lago diventato poi torbiera. » È con queste belle parole che si chiude il lungo capitolo di Piero Barocelli intitolato "Manufatti paleontologici della torbiera di Trana" apparso alcuni anni fa sulla rivista "Archeologia e Belle Arti", dalla lettura del quale si apprende quanto questo sito ormai inesistente abbia contribuito ad una maggiore conoscenza di quel periodo così lontano del lungo cammino dell'Uomo. Solo un paio di cose, a parer mio, non sono emerse dallo studio dei ritrovamenti avvenuti sul luogo e dalle supposizioni fatte a posteriori, "a tavolino", in merito alle abitudini degli antichi abitanti della torbiera, i palafitticoli. La prima riguarda la consuetudine di venire a botte ogni volta che questi entravano in contatto con i loro vicini di Reano, di Avigliana, di Sangano e di Giaveno. L'altra concerne il loro comportamento durante gli spostamenti, cioè se continuassero o meno a portarsi dietro le femmine trascinandole per i capelli. Sulla prima questione non dovrebbero sussistere dubbi, giacché per millenni l'uomo primitivo ha sempre considerato come potenziale nemico chiunque non facesse parte del proprio clan, diffidando degli sconosciuti e scacciando gli intrusi con ogni mezzo, soprattutto a colpi di clava. Sulla seconda, invece, non si sa nulla. Tuttavia mi piace scherzosamente immaginare che la dinamica legata a quella remota e simpatica usanza fosse ancora in vigore e venisse rigorosamente applicata …

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